Manuel Felisi: lo stile di un artista
La magica vitalità, un senso di appartenenza. Il segno del tempo, come traccia vitale, dove il ricordo non è mai nostalgia, ma radice. La visione artistica di Manuel Felisi è anche la visione della sua etica, un connubio indissolubile per questo artista di 47 anni, fedele alla sua anima e alla sua vocazione. Un uomo che incarna l’idea di Fortela con pratica nonchalance.
Felisi è un artista tout-court, un “multisciplinare” per vocazione, sospeso tra pittura, fotografia, installazioni (poetico il suo “pianoforte sotto l’acqua” per Vinicio Capossela nella performance Sinfonia Numero)
Un’identità che non potrebbe vivere senza collettività, una dolcezza che è profonda e eterna, come l’abbraccio di un progenitore. Un’arte che ha la forza della memoria. Che rincuora invece di shokkare, e accoglie invece che respingere.
Contrario alle velleità del consumismo, anche lo stile del suo modo di vivere e vestire è in sintonia con la sua etica. Manuel è uomo da “armatura”, come la definisce lui stesso: ama un look comodo, agile, rappresentativo. Che sia la sua protezione e la sua icona, che si possa anche sporcare di colore e di creatività, che lo porti nel mondo con confidenza. E chi conosce il flair di ogni capo Fortela, avrà già capito il nesso profondo tra questo artista e il brand.
Lo abbiamo fotografato con indosso la collezione primaverile, intervistandolo nel suo nuovo studio milanese.
Per ammirare i suoi ultimi lavori, Manuel Felisi sarà in mostra al Museo Carlo Bilotti, a Villa Borghese, Roma. In mostra 80 dipinti di animali, su legno, che costituiscono la serie “Uno a Uno”.
La mostra è organizzata dalla Galleria Russo. In collaborazione con la Fondazione Bioparco di Roma. A cura di Gabriele Simongini. Fino al 22 aprile.
Dove siamo?
“In fondo a viale Padova, Milano. Dove mi sono trasferito da poco. Dove c’è ancora un vero tessuto di quartiere, e dove incontri i sorrisi delle persone: è una bella realtà, è ancora un pezzo di Milano per come me la ricordavo io. Ho traslocato recentemente da via Ventura, a Lambrate. Dopo che anche Massimo de Carlo con la sua galleria se ne è andato, restavo solo io a fare l’artista…era d’obbligo andar via. Ma questa situazione mi sta regalando molte gioie, ho scoperto un gran quartiere”.
Ad esempio?
“Qui si ritrova la vecchia vita di quartiere, la bottega, le persone che ti chiamano per nome, il tessuto sociale. Io ho questo studio di fronte alle poste e osservo le persone che fanno la fila. Ci si sorride, è uno scambio visivo, mi piace”.
Da dove vieni Manuel?
“Ho origini siciliane, ma sono un milanese, anzi, un Lambratese per la precisione. Sono nato e cresciuto a Milano e, tranne che per un momento di sana passione per Istanbul, io sono sempre stato a Milano”.
Come nasce il tuo lavoro?
“Ho fatto gli studi più classici: il liceo artistico e poi l’Accademia di Brera, dove ho studiato scultura. In realtà ho iniziato il liceo artistico volendo fare architetto. Poi ho conosciuto un prof di Architettura e ho fatto scultura, e poi un professore di anatomia che mi ha fatto innamorare della pittura. Una catena di incontri che mi hanno portato dove sono. All’inizio, ora non più, ero molto timido quando dovevo parlare del mio lavoro. Per mantenermi facevo scenografie, ma poi c’era questa parte di me, quella dell’artista, che non era facile spiegare, comunicare”.
Di cosa parlano le tue opere?
“In realtà il mio lavoro di pittura è profondamente legato alla memoria, ai ricordi. I miei primi lavori erano dipinti sulle lenzuola lise e rovinate che erano appartenute alla mia nonna. Dico una cosa, che può sembrare poco ortodossa: un mio quadro può piacere o non piacere, ma c’è sempre qualcosa che scava nelle memorie delle persone. Non ti lascia mai senza un appiglio. Mi interessa recuperare un filo con la memoria. Chi mi conosce sa che sono un totale appassionato di mercatini, di antiques e di “roba vecchia”. Mi piace indagare il vissuto della città attraverso il tessuto “vecchio” di cui la città stessa si libera. Penso sempre: di che cosa la gente si disfa? E perché?”
Come un’indagine antropologica…
“Esatto. Nei primi mercatini che visitavo coi miei, mi ricordo che si vendevano ancora gli inginocchiatoi, perché pochi decenni prima la gente li usava, quotidianamente. Una traccia storica, di abitudini scomparse. Ecco, io vivo il mercatino dell’antiquariato o i negozi dei robivecchi come il carotaggio nella terra. Se osservi quello che è in vendita, vedi negli anni che cosa è successo, cosa è cambiato. Il mercatino delle pulci per me è il “carotaggio della cultura del momento”: alcuni eliminano e alcuni ritengono. Un alternarsi che ritengo fondamentale perché nasca una nuova vita. Un po’ come ho fatto con il pianoforte nella performance con Vinicio Capossela (Sinfonia Numero, del 2012), dove ho restituito al pianoforte non più note o suoni, ma semplicemente il ticchettio della pioggia che rimbalzava sui tasti, un’azione che dava una nuova identità e da cui nascevano nuove cose. Muffe, anche”.
Come identifichi il tuo stile, il tuo modo di vestire?
“Non saprei identificare di preciso il mio modo di vestire, direi che è monocromatico, semplice. In questo periodo uso un abbigliamento di taglio largo, non seguo mai la tendenza, ma sono attento al gusto, al mio. Mi piace sentirmi a mio agio in determinate situazioni. E questa è la mia divisa, mi identifica. Fortunatamente il mio lavoro mi permette di andare in giro “con spavalderia”, e di vestirmi come voglio. Anche in jeans e maglietta. All’artista si perdona tutto! Però, adesso più che mai, mi piace essere a mio agio coi vestiti. Non amo gli abiti che hanno una vita breve, non parlo di tessuti di bassa qualità, ma proprio di estetica. Non ne posso più di cappotti decostruiti che sono belli per tre mesi, e poi diventano ridicoli, fuori moda. Preferisco qualcosa di classico, con tanta personalità. Ecco perché mi piace lo stile di Fortela”.
Come ti “vesti” di solito per lavorare?
“Ho questa abitudine: io inizio sempre a lavorare senza cambiarmi… Tanto, mi dico, devo solo dipingere due cose, due dettagli, e invece poi va a finire che mi sporco. Paradossalmente, se andassi in studio con un look pensato e particolare, lo rovinerei. Invece con questa “divisa”, un po’ over, è come se indossassi la mia canvas, e anche se la sporco di vernice, mi sento pronto per qualsiasi cosa, da un aperitivo a una cena formale. Mi sento come se avessi su un’armatura. La “mia armatura” da guerriero artista. Cosa diversa le per le mani. Mi sporco tantissimo le mani e non mi piace averle in disordine. Invece, una macchia di vernice sui pantaloni o sulle scarpe non mi da fastidio. Del resto Jean Michael Basquiat usava degli abiti di Armani per dipingere: un’abitudine – o forse una strategia – “rubata” da Picasso e da Salvador Dalì. Mi piace Basquiat: l’ultimo mio ciclo di pittura, quello con le nuvole, è ricco di tante citazioni, come l’uso della bomboletta spray, tipico dei graffiti artist”.
Come è nato il tuo legame con Fortela?
“Ho conosciuto Alessia Giacobino, la designer della linea donna, perché è diventata amica della mia fidanzata. C’è stato un feeling immediato. Così ho conosciuto e amato il brand e la collezione uomo, che mi rispecchia molto. Fortela ha quella spontaneità di stile, si situa in un segmento che mi appartiene, è quell’idea di moda giusta, quell’armatura appunto, della quale mi sento complice. L’altro giorno ho visto un film medievale, e ho fatto caso ai movimenti dei guerrieri, che facevano fatica a essere spontanei, liberi. Invece Fortela ti segue perfettamente, è la “mia corazza” comoda, bella, forte”.
Colore preferito?
“Il blu. Lo uso sempre. Parto sempre dal bianco, e poi pigmento e mischio. Ma il primo pigmento che uso è sempre il blu, anche se devo fare un verde, metto sempre il blu all’inizio. Mi piace: quando dipingo le viste degli alberi disegno prima il cielo. Il blu c’è sempre. Lo amo in tutte le sue sfumature… e amo tutti i colori che ne derivano. Essendo un colore primario “regala” un sacco di altri colori”.
Accessorio del cuore?
“Adoro i cappelli, i Borsalino di mio nonno, o i fedora acquistati nel tempo. Porto sempre un cappello, dalla cuffietta di lana, al cappellino da trucker. Ma il mio vero feticcio è una vecchia valigia di pelle, che negli anni non mi ha mai abbandonato. L’ho comprata da ragazzino, costava un milione di lire, la presi in Paolo Sarpi, durante un “Fuori Tutto”. L’ho comprata con un ottimo sconto, ma io avevo solo 18 anni e quella cifra era altissima, ci spesi tutti i miei risparmi: da quel giorno è la mia valigia e mi accompagna da sempre. Ed è scomoda, pesante, non entra nelle cappelliere… ma io mai e poi mai scenderò al compromesso del trolley! Ora mi è diventato più costoso ripararla che farne fare una uguale, ma non riesco a separarmene… ah, la memoria che tiri che ti gioca…”
Intervista a cura di Benedetta Rossi